Lavorare con persone che hanno una disabilità è per me un grande privilegio quotidiano come Counsellor.
Come servizio e come ente seguiamo molti percorsi di inserimento lavorativo per persone che hanno un’invalidità fisica, psichica o intellettiva. Ogni volta che incontro una persona che rientra in quelle che vengono chiamate “categorie protette”, il mio intervento va “alla ricerca” delle risorse e delle competenze che quella persona ha, al di là delle piccole o grandi fragilità e difficoltà che può avere e che sono la prima cosa che viene vista di loro, e che spesso loro stessi vedono per prima. Mi stupisco ogni volta di come il tema della svalutazione sia strettamente connesso con queste persone; svalutazione di se stessi, svalutazione delle proprie capacità, svalutazione delle opzioni, svalutazione dell’altro e dell’ambiente esterno. Svalutazione dell’ipotesi che un lavoro da qualche parte del mondo, là fuori, per loro ci sarà…c’è!

Su questo penso sia importante fare chiarezza, perché a volte parlare di disabilità significa parlare di qualcosa che non è chiaro, è nebuloso. Tante volte una fragilità fisica o psichica, purchè diagnostica da uno specialista e riconosciuta da enti specifici, viene definita disabilità e in termini di inserimento lavorativo “invalidità”. In questa grande categoria possono rientrare persone diabetiche, cardiopatiche, che hanno avuto diagnosi oncologiche, oppure che soffrono di depressione o di disturbi psichici di vario tipo, persone che hanno un lieve o moderato ritardo cognitivo, persone che hanno una disabilità sensoriale uditiva o visiva. Persone che fanno parte della quotidianità di tutti.

I percorsi richiedono tempo, un tempo necessario per aiutarli in primo luogo a far emergere le cose che sanno fare, poi a chiedersi cosa vogliono e infine a sostenerli nel pensare che quello che vogliono è possibile, è realizzabile.
E’ realizzabile? Ogni tanto me lo chiedo anche io, non perché abbia dei dubbi sulla persona, ciascuno di noi se messo nelle condizioni giuste, con il supporto adeguato e con le accortezze necessarie, può trovare un lavoro adatto a sè! ma perché mi capita spesso di incontrare realtà aziendali che non hanno un’ottica così inclusiva e integrativa come dicono di avere.
Realizzare un obiettivo lavorativo significa anche essere consapevoli e onesti il più possibile dei limiti legati alla propria fragilità; sapere quali sono gli elementi, i contesti o le dinamiche che rischierebbero di non farmi stare bene o di acutizzare il mio malessere, fisico o psicologico che sia.

Dall’altra parte assolvere l’obbligo di legge 68/99 non vuol dire secondo me solo assumere una persona con invalidità, ma includerla. Rendere quel luogo adatto a tutti i suoi dipendenti, anche quelli “meno performanti”, anche quelli che hanno oggettive e reali fragilità, ma allo stesso tempo persone con abilità e competenze che possono migliorare quel luogo con il loro contributo!
Inclusione è una parola molto usata, non solo in contesti in cui si parla di disabilità oggi, ma spesso assume una connotazione solo di superficie, in cui metto insieme persone diverse fra loro in uno stesso luogo. Questo non significa inclusione, al massimo co-esistenza e spesso non particolarmente positiva per molti dei suoi abitanti. Includere significa rendere quel luogo un posto in cui ognuno di noi viene rispettato per quello che è, non discriminato, non allontanato ma solo parte del gruppo che abita quel luogo, significa appartenere e stare bene.
L’inclusione è fatta da singoli piccoli gesti quotidiani che ciascuno di noi mette in atto…. e tu cosa fai concretamente per includere l’altro? E in che modo gli altri ti fanno sentire incluso e parte di un gruppo?